di UGO MORELLI.
Ti presenti che nessuno ti aveva invitato. La fai da padrone. Che tu ti presenti è poi, in fondo, un eufemismo. La tua forza consiste nell’essere indefinito. Assumi di volta in volta le forme più sottili e inquietanti dell’ansia e della paura. Ti celi e ti manifesti a tuo piacimento. Sei un maestro dell’allusione. Allo stesso modo generi l’illusione di essertene andato, per poi tornare, atteso e sconcertante, imprevisto e addirittura cercato. Sì, perché riesci a proporti persino come una soluzione che si attende e a cui si ricorre, se non altro per tentare di dare un volto all’ansia che generi. Come il tuo nome stesso dice, non hai confini. Soprattutto non hai forma. O meglio ne hai tante di forme. Tutte quelle che assumi di volta in volta. Ti modelli insinuandoti in ogni spazio. Sei un maestro degli interstizi. Prendi la forma che più ti aggrada. Per fare il tuo mestiere, e farlo bene.
Tu diventi Vronskij nel romanzo di Claudio Piersanti. Strappi un epiteto al narratore, fin dal titolo. Quel maledetto Vronskij. È però difficile sottrarsi all’idea che finisci per diventare il protagonista del romanzo. Quello al cui ritmo tutti gli altri agiscono. Diventano comparse che danzano sugli spartiti che di volta in volta disegni. E ti performi, per tutta la storia. Oh! Se ti performi! Riesci a diventare, surrettiziamente, fenomeno storico e sociale, deponendo mestieri e professioni. Fai di un’identità professionale un simulacro. Produci sentimenti di inutilità. Induci a ripieghi malinconici. Riformuli intere forme di vita. Senza palesarti mai, che so, con un volto. Se no, del resto, che indefinito saresti. Alla fine, hai pure ragione.
Diventi gelosia, nelle tue illimitate performance. Tanto cosa ti costa. Hai il dono dell’inafferrabile. Non viene prima né è immaginabile in qualche modo il tuo arrivo. Ti produci producendoti. E così ti nascondi, anche a lungo, generando illusorie sicurezze. Per poi ripresentarti all’improvviso. Non sei ammassato da qualche parte per riversarti poi nell’esperienza. Sei come un germe che deve svilupparsi per venire nelle esistenze. E come un tarlo rodi e prendi le forme improbabili e inquietanti dei sentimenti più corrosivi. La gelosia, appunto.
Diventi mancanza, assenza, lontananza. Ancora una volta col tuo codice. È perché non si riesce a darti nome e forma, luogo e presenza, che domini di fatto la scena. Anche quando sciogli la riserva non sei da meno. Non fornisci spiegazioni e fai accadere le cose. Trasformi i sentimenti nei loro opposti. Rovesci come un guanto disposizioni e atteggiamenti. Manovri odi e amori. Senza che alcuno possa dirsi perché, in fondo, sta agendo come agisce.
Ti riesce pure di prendere la forma subdola del male che uccide. E lo somministri con perizia. Accentuandone la presenza. Sospendendone la forza. Centellinando speranze, subito trasformate in illusioni. Ammannendo perfino, al limite della certezza di esserne usciti. Covi, intanto, sotto la cenere. Trascini, alla fine, nel baratro definitivo. Nel luogo del non ritorno. Il tuo vero regno, a pensarci bene. Il luogo inimmaginabile. Oggetto di domande senza risposte. L’indefinito per definizione.
Strappi persino una qualificazione poetica a Claudio Piersanti. Ti chiami Vronskij, ma ognuno sa che è il nome di questa volta. E anche questa volta riesci a essere multiforme e molte cose. Ti riesce di farlo e ne esci addirittura protagonista. Di più: carattere precipuo della nostra umana condizione. Umana? Che buffo! È l’esistenza stessa, dai paesaggi, ai fiori, alle cose, agli esseri, alla storia, agli eventi, che si muovono, concitati o stanchi, mentre tu batti il tempo, a essere informata al tuo carattere. Sia perché nel passare del tutto tu persisti. Anche, però, in quanto ritmo e sequenze le detti tu.
La tua vera forza, forse, sta nel fatto che ti presenti come il necessario. O almeno così ti riesce di apparire. Quello che va fatto. Anzi quello che non si può non fare. Ma come non si può? Chi lo ha stabilito? È ben curiosa questa faccenda. Uno pensa di essere libero e fare di tutto per affermare la propria autonomia, e poi si ritrova in questo garbuglio che tu crei ad arte, dal quale non si riesce ad uscire. Si trova collocato per forza dentro una situazione che tu crei, dalla quale non è solo che non è possibile liberarsi, ma c’è qualcosa di più. Qualcosa che semplicemente ci precede. Che viene prima di noi. Il fatto è che tu non sei da nessuna parte e allo stesso tempo sei costantemente presente. Si può ad esempio non respirare? No, è necessario farlo. Si può non desiderare? No, lo facciamo prima ancora di accorgercene. Si può non esistere? No, perché finché si esiste si esiste comunque, e per non esistere bisogna interrompere quella condizione che finché c’è è necessaria. Ci arrabattiamo e si arrabattano i personaggi di Piersanti, nel tentativo di sfidarti, indefinito necessario, ma non sapendo né da dove vieni, né come ti comporterai, tu semplicemente ci precedi, facendoci fare quello che vuoi. Ti abbiamo dato molti nomi nel tentativo di esorcizzarti, di domarti, persino di pregarti perché ascoltassi almeno in parte le nostre suppliche. Per certi aspetti si può sostenere che la nostra vita sia un continuo fare i conti con te, indefinito necessario Vronskij. Basterebbe pensare a tutti i rituali che mettiamo in atto per cercare di controllare il tuo peso e la tua incidenza nella nostra esperienza. Si va dalle superstizioni, ai giochi astrali, ai maghi e agli oroscopi, e nel corso del tempo non c’è stato nessuno dei nostri simili che non abbia fatto ricorso a un oracolo, che non abbia cercato di interrogarti, nel tentativo di carpire le tue intenzioni. Uno dei protagonisti di Claudio Piersanti ricopia persino un romanzo con cura e dedizione nel tentativo di esorcizzarti. E anche lì tu ti insinui e detti legge. Ma, impassibile, tu, necessario, non ti sei mai espresso in maniera diretta e soprattutto non ti sei mai presentato. Anche quando abbiamo cercato di sostenere il nostro libero arbitrio, ci hai lasciato fare. Fino a quando da soli e un po’ mesti stiamo capendo che quella è stata una nostra ennesima illusione. Ci hai tenuto e ci tieni sotto scacco, manifestandoti come e quando credi. A volte in modi che ci illudiamo di aver previsto almeno in parte calcolando delle probabilità. A volte irrompendo letteralmente e travolgendoci, lasciandoci senza respiro. Allora poi uno dice che siamo noi che ce lo inventiamo il necessario, trasformando la casualità in qualcosa che siccome è andato così non poteva che andare così, o addirittura era previsto che andasse esattamente così. Ma a pensarci bene si tratta di un altro tuo modo di farci credere che siamo noi a inventare te e non tu a fare di noi quello che vuoi; si tratta di un ulteriore esorcismo per cercare di darti una figura o, come si dice, di un’altra tua richiesta ineludibile. Dopo di che siamo costretti immediatamente a chiederci, per come siamo fatti: ma richiesto da chi? Ed ecco che ci disponiamo ad inventare immediatamente qualcuno o qualcosa che ci chiederebbe di fare quello che facciamo, o che farebbe accadere quello che ci accade. Non basta neanche la constatazione evidente della nostra finitudine, l’unica certezza che abbiamo, per tirarci fuori da questo circolo nel quale giriamo, girando noi stessi la ruota che ci fa girare. Come nell’ultima parola dell’ultima riga del libro di Piersanti, dove tu celebri il tuo trionfo, o indefinito necessario. E ricominciamo daccapo a immaginare che quello che accade abbia una causa, che non sia altro che un effetto, e a dare immediatamente dopo un nome a quella causa. Quel nome raramente riesce a mantenere una normalità o, come potremmo dire, un’iniziale minuscola. Dopo un po’, soprattutto se è condiviso con qualcun altro o con alcuni altri, e ancor meglio con molti altri, quel nome che abbiamo dato alla causa si erge e assume un carattere superiore. Al punto che ci dimentichiamo di essere stati noi a creare quel nome e trasformiamo quella causa in una causa, guarda un po’, necessaria, che presto diventerà una causa prima. C’è voluta tutta la forza e il rigore narrativi di Claudio Piersanti per rimanere poeticamente al di qua di quella deriva a cui ci induci. Almeno questo la grande narrativa, con la sua poetica riesce a risparmiarcelo. E in questo avvitarci su noi stessi si consuma la nostra umana vicenda, fatta nella maggior parte dei casi della subordinazione a te, indefinito necessario, e dei tentativi di liberarci di te; fatta di improvvisi e brevi lampi di luce e di tanta fatica a percorrere il buio, che naturalmente riteniamo a sua volta necessario.
QUI LA RECENSIONE DI LUIGI GRAZIOLI.