di GENEROSO PICONE.

“Ho sempre pensato che i luoghi in cui si vive influenzino i pensieri e i sogni che facciamo”, rivela Marco Belpoliti mentre si accinge a descrivere la casa bolognese di Piero Camporesi. Stanze zeppe di libri e documenti, oggetti e ritratti, poltrone e macchine per scrivere, i segni di un passato che aveva resistito a ogni cambiamento. Lì, nello studio del professore, tappa intermedia nel viaggio intrapreso, Belpoliti comprende come “ci sono luoghi che guidano le parole che pronunciamo e che scriviamo”.
Cos’altro è la pianura fino a quel punto attraversata, la piatta pianura dalla Brianza al delta del Po, da Monza a Porto Tolle, dal margine delle Alpi all’Adriatico? Un luogo che guida le parole e conferisce loro tono, luce e forma. “Pianura” di Marco Belpoliti (Einaudi, pagg. 286, euro 19,50) è il diario di un attraversamento nello spazio e nel tempo, il racconto di persone, paesaggi, storie e incontri in una risalita verso il riconoscimento del proprio carattere identitario, dei tratti distintivi di un’appartenenza, del segno indelebile di una derivazione. Il posto delle origini, la terra delle memorie private e pubbliche, l’Heimat.
L’autore – scrittore e saggista, docente all’Università di Bergamo e soprattutto nato a Reggio Emilia – si consegna allo schema narrativo de “Le città invisibili” di Italo Calvino, da Marco Polo padano si rivolge al suo Kublai Khan e disegna il proprio atlante delle emozioni: una cartografia intellettuale nei termini di un’archeologia di sé. Il territorio che si fa autobiografia, che è autobiografia. Si è fatti di nebbia e terra, in fondo.
E’ una impresa particolare perché particolare e affascinante è il luogo. Quasi un’avventura. La pianura richiede una geologia non della profondità, ma della superficie perché è lì che si depositano i residui del passato, le trame delle esistenze, le rovine e le macerie degli anni. La superficie si presenta nelle rugosità delle tessiture intercettare da Gilles Deleuze e Félix Guattari, la pianura che racchiude l’enigma della forma e diventa “una sorta di incommensurabile, dove però c’è sempre una misura”. Lo smisurato contiene dentro di sé la propria misura, come nella fotografia di Luigi Ghirri che racchiude il mare in una cornice, come nel tentativo incaponito del Palomar di Italo Calvino alla ricerca dell’inizio e della fine di un’onda.
La sua prima cartografia si deve alla centuriazione del territorio adottata dai Romani. Ma nonostante il progetto politico che squadrava in assi ortogonali, la pianura ha mostrato la sua irriducibilità a ogni paradigma costrittivo. Qui Gianni Celati ha colto l’aperto dell’”Elegia duinese” di Rainer Maria Rilke, “l’aperto è incommensurabile e la nebbia non lo lascia guardare”. Qui Ghirri ha riscontrato l’imprecisione “senza punti cardinali, che riguarda più la percezione di un luogo che non la sua catalogazione o descrizione”.
La pianura allora è magica e folle, epica e irriverente, arcaica e solare, tra il Pinocchio di Giovanni Jervis e l’Alice disambientata del ’77 al Dams, la via Emilia e il West di Francesco Guccini, gli “Altri libertini” e il magone di Pier Vittorio Tondelli, il teatro della disperazione e la piazza dell’energia, Antonio Delfini e Giuliano Scabia, John Berger e Umberto Eco, Gianikian Yervant e Adriano Spatola, Giulia Niccolai e Giovanni Lindo Ferretti, Ermanno Montanari e Giuliano Della Casa, Sandro Vesce e Marco Martinelli fino ad allungarsi a Napoli nella Scampia del progetto “Arrevuoto”. La pianura che è lo scenario della ripresa frontale di Michelangelo Antonioni, lo spazio dove il visibile è sempre il già visto, il dicibile è sempre il già detto e se la vita è quella roba lì comunque vale la pena di viverla. Perché è poesia e racconto, arte e storia, chiese e cattedrali, monumenti e pietre, strade lunghe e osterie scomparse, leggende e miti che sono “come un labirinto in cui ci si sperde e ciascuno, come sai, tira fuori quello che gli serve”.
Belpoliti si muove seguendo il corso delle stagioni, dall’estate all’inverno, dal Danese e le centurie al San Prospero degli Strinati. Si convince dell’umoralità dei padani, delle loro continue oscillazioni tra la gioia per la vita e la rabbia per il mondo che forse è il motivo per cui hanno imparato stare “scisci”, schiacciati al suolo per non farsi vedere dai barbari razziatori che scendevano dalle montagne. Nascondersi, non farsi notare e sopravvivere; pianura bassa per necessità e modestia. Senza tempo.
dalla pagina di culturale de “IL MATTINO”