Che ce ne facciamo della parte che avanza? Alla ricerca della coscienza.

di UGO MORELLI.*

“Che strana creatura l’essere umano,
brancola nel buio con espressione intelligente”.
[Kodo Sawaki Roshi]

L’attenzione a ciò che ci rende somiglianti è forse una delle vie più rilevanti per comprendere la nostra condizione umana. A ricordarcelo è un antropologo fine e profondo come Francesco Remotti. Secondo lui non sono solo la differenza e l’unicità a caratterizzarci, bensì proprio l’essere somiglianti, non solo tra noi umani, che pure sull’esibizione delle differenze spesso fondiamo la distruttività, ma tra noi e gli altri animali. Leggendo l’esergo di un capitolo, il quarto, di Pensieri della mosca con la testa storta, di Giorgio Vallortigara, pubblicato da Adelphi nei primi mesi del 2021, mi sono ritrovato nelle conversazioni lunghe e approfondite, al profumo di sigaro toscano, con Valentino Braitenberg, nelle stanze mozartiane di palazzo Todeschi a Rovereto. “Tutti i cervelli sono sorprendentemente simili. Una volta viste preparazioni istologiche del cervello umano al microscopio, non si avrà difficoltà a riconoscere il tessuto nervoso di altri animali anche di specie imparentate molto lontanamente con noi, come i calamari e gli insetti”.

Addentrandoci nella bellissima e coinvolgente esposizione di dati sperimentali con elevato livello narrativo , propria dello stile di Vallortigara, scopriremo che un’ape non solo possiede nel ganglio encefalico 960.000 neuroni; non solo con questo bagaglio limitato riesce a compiere prodezze cognitive, discriminando tra quadri di Monet e quadri di Picasso fino a giungere a riconoscere nuove opere mai viste di Monet e Picasso, ma quell’ape riesce persino a categorizzare in maniera astratta degli stimoli come “uguali” o “diversi”, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche degli stimoli stessi. E allora Vallortigara, con sottile ironia, come sempre orientata a inviare un messaggio alla nostra presunzione di superiorità di specie, e al non voler invece valorizzare le nostre distinzioni, scrive: “Gli esseri umani certamente non sfigurano nel confronto con le api o con altre creature munite di sistemi nervosi in miniatura.

Anche noi sappiamo riconoscere i volti, classificare un dipinto come un Picasso o Monet e riconoscere l’uguale e il diverso. Però il cervello umano possiede 86 miliardi di neuroni: il vero mistero non è come possa riconoscere i volti o i quadri di Monet, bensì che cosa se ne faccia di tutti quei neuroni che gli avanzano”. Con questo spirito rigoroso e allo stesso tempo leggero, della leggerezza di cui parla Italo Calvino, quella leggerezza quanto mai necessaria per guardarci dentro e intorno e per narrare qualche aspetto considerevole e degno di essere conosciuto della nostra condizione come parte del sistema vivente, Vallortigara apre le porte al visitatore della sua galleria di risultati di ricerca. Si finisce allora in una specie di rapsodia, come in Picturesat an Exhibition di Modest P. Mussorgsky, dove la progressione in crescendo alimenta e soddisfa una curiosità dietro l’altra, con esperienze personali e di laboratorio, sempre basate su ricerche sperimentali o sull’utilizzo del metodo proprio delle scienze naturali.

Come ci aveva raccontato Stephen Jay Gould a proposito dell’origine della sua passione per i dinosauri, a partire dalle ore trascorse da piccolo nelle sale dei sauri dell’American Museum of Natural History di New York, un Giorgio Vallortigara di circa otto anni comincia a cimentarsi con un formicaleone. In qualche modo quel piccolo animale tornerà nella sua esperienza di studioso “dei sistemi nervosi e dei loro prodotti – le menti –”, alla ricerca della “lezione generale che possiamo ricavare analizzando questi cervelli miniaturizzati”. Se proprio, però, si deve cercare l’equivalente dei dinosauri per Gould, nel percorso del neuroscienziato e specialista di cognizione animale Vallortigara, si deve ricorrere ai suoi beniamini, i pulcini di pollo domestico.

Uno dei più affascinanti temi della ricerca di Vallortigara, quello che da sempre gli consente di produrre risultati rigorosi e accattivanti per il lettore, sia nei saggi specialistici che in un libro di divulgazione scientifica di alto livello come questo, è il fatto che i suoi lavori parlano di noi. Che ci si sorprenda, si annuisca o ci si arrabbi per essere paragonati a un cervello di gallina, quello che non si riesce a fare è dire che quanto lo scienziato ci presenta non ci riguardi. A rendere incalzanti i contenuti è probabilmente l’obiettivo di fondo della sua ricerca: “Mi sono convinto che studiando i cervelli miniaturizzati di creature come le api o le mosche dovremmo riuscire a enucleare i principi di funzionamento basilari delle menti. Quei ‘principi primi’, che sembrano ancora mancare alle nostre discipline, dai quali tutto il resto dovrebbe logicamente discendere, compresa la natura e l’origine evolutiva delle esperienze coscienti. Le condizioni minime per la comparsa nel mondo di creature che del mondo hanno esperienza, possono essere stabilite solo ritornando agli albori delle menti, ai primi sistemi nervosi che hanno abitato il pianeta”.

È proprio l’esperienza l’oggetto di ricerca tra i più rilevanti, ancorché meno focalizzato per cercare di comprendere il rapporto tra corpo, cervello, mente e azione, e qui la transdisciplinarità che caratterizza l’approccio di Vallortigara si muove molto efficacemente intorno all’ipotesi che “potrebbe esserci qualche rapporto tra il cervello di un formicaleone e la psicologia”.

Se la coscienza è il fatto di avere esperienze, “…di sentire qualcosa quando si sfiora una guancia con le dita, si odora della menta…”, l’autore prende posizione non per definirla una volta per tutte, tanto che si duole di non fornire la spiegazione, ma per cercare di arrivarci per differenza. E così afferma di disdegnare il gradualismo, che assegnerebbe agli altri animali la capacità di avere solo un poco di esperienza rispetto alla piena esperienza di homo sapiens. Se esperienza vi è, è quella che è e ha un valore in sé. “O le altre specie hanno esperienze (le loro esperienze) oppure non le hanno”. L’altro orientamento che Vallortigara sottopone a critica riguardo alle interpretazioni dell’esperienza e della coscienza, è quello legato alla quantità e alla ricchezza di strutturazione degli elementi del sistema nervoso. In proposito l’autore riconosce di sostenere la tesi che definisce abbastanza estrema, in base alla quale le forme basilari della vita mentale non necessitano di grandi cervelli e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali sia probabilmente al servizio dei magazzini di memoria, non dei processi del pensiero o della coscienza.  L’annuncio dolente che neppure alla fine di questo libro, così speculativo e affascinante sul rapporto fra coscienza ed esperienza in tante specie viventi, troveremo la spiegazione di che cosa sia la coscienza ma solo qualche ipotesi sulle condizioni minime, ritenute necessarie, per la sua apparizione, sarà ampiamente ripagato da capitoli in cui chi legge si ritrova continuamente a pensare a se stesso .

Il livello di complessità delle menti sembra essere significativamente connesso all’ interazione in gruppi sociali dove gli individui siano impegnati a creare trame intricate nei rapporti interpersonali come accade tra gli esseri umani, anche se ciò non riguarda solo gli umani ma anche altri mammiferi o gli uccelli come i corvi. Come è noto su un’ipotesi simile ha ampiamente lavorato il biologo evoluzionista Edward Wilson cercando di evidenziare come la conquista sociale della terra da parte degli esseri umani sia in buona misura collegabile ai processi cooperativi che hanno intrecciato gli individui umani tra loro, progressivamente, nel corso della storia. Gli adattamenti alla vita sociale, come accade ad esempio anche nel caso delle api, si sviluppano impiegando dotazioni neurali che possono venire anche dalla storia profonda della specie e dalle quali si dipartono abilità sociali sufficientemente connesse alle esperienze contingenti delle interazioni nelle comunità di appartenenza.

Uno dei principali meriti dei contributi contenuti nel libro di Vallortigara riguarda la collezione delle domande che rispetto ad ognuno dei problemi trattati l’autore lascia emergere. Nel caso specifico riguardante il riconoscimento delle facce la questione si fa di particolare interesse. Siccome, proprio in un esperimento condotto nel laboratorio di Vallortigara è stato possibile rilevare la risposta elettroencefalografica di neonati di 64 ore medie di vita di facce canoniche rispetto a facce rovesciate, quello stesso insieme di capacità viene rilevato anche nel comportamento delle api e delle vespe. Allora siamo ancora una volta di fronte alle questioni fondamentali di cui si occupa, tra le altre cose, il libro. Se tutte le vespe e le api riconoscono le facce pur possedendo mini-cervelli dotati di un milione scarso di neuroni, ciò induce a chiedersi se le componenti di base della cosiddetta intelligenza sociale esigano davvero così tanta capacità cerebrale come quella degli umani, delle scimmie o dei corvi, con cervelli che giungono ad avere miliardi e miliardi di neuroni.

Giorgio Vallortigara

Il rapporto tra la dimensione dei gruppi sociali e il volume dei cervelli è una questione di particolare importanza sulla quale esiste un articolata varietà di contributi scientifici. Una delle ipotesi più significative riguarda l’esistenza di un limite cognitivo che dipenderebbe dalla grandezza del cervello riguardo al numero massimo di individui con i quali sarebbe possibile mantenere delle relazioni sociali stabili. Com’è noto questa misura prende il nome dall’antropologo evoluzionista Robin Dumbar e va sotto il nome di “numero di Dumbar”. Una volta individuata la misura di 150 persone, nei gruppi umani, come misura di riferimento per un rapporto efficace tra caratteristiche neurofisiologiche e relazioni sociali, sembrerebbe che nella relazione tra grandezza del cervello e funzioni cognitive intervenga l’elaborazione delle informazioni: nel caso di più informazione da elaborare, allora servirebbe un substrato neuronale più ampio. Per questa ragione, quando si vive in gruppi sociali più grandi, sarebbero necessari cervelli più grandi. Considerando il comportamento degli altri animali, diversi dagli umani e dai primati, sembrerebbe farsi strada anche l’alternativa della specializzazione nell’organizzazione e divisione dei compiti e nello svolgimento di funzioni diverse.

Il rapporto tra il riconoscimento delle facce e i livelli e i modelli di socialità è correlato, naturalmente, all’ipotesi che si assume a proposito della visione.

Sempre meno, infatti, la visione e i suoi meccanismi sono riconducibili ad un’ipotesi rappresentazionale. Vedere, probabilmente, non significa generare delle rappresentazioni nel cervello, ma la percezione visiva si associa sempre più all’ azione stessa e vedere quindi significa agire, compiere delle azioni. Questa attività esplorativa mediata dalla conoscenza delle contingenze sensorimotorie appare sempre più come un processo attivo di interrogazione e di controllo e, quindi, un’attività che coincide con l’azione. Nel momento in cui i processi attivi e percettivi vengono confrontati con attività particolarmente elaborate delle esperienze, scopriamo che la nostra vita mentale comprende svariate categorie percettive che si vengono a costituire come risultato dell’esperienza. Se c’è quindi una differenza tra un critico d’arte che riconosce l’attribuzione di un dipinto a un determinato autore, evidenziando un apice delle capacità mentali umane, e un animale con un mini-cervello, è pur vero che per quello che concerne l’aspetto puramente percettivo ci sono affinità particolarmente importanti con le capacità percettive di piccoli animali come possono essere, ad esempio, le vespe cartonaie. Allora la differenza pare che consista nel fatto che la categorizzazione e la capacità di formare concetti di un animale con un piccolo cervello è dovuta proprio a una necessità dovuta alle dimensioni. Sembra che sia quella necessità a renderli tanto capaci, mentre chi ha molti neuroni può avvalersi del “lusso” di memorizzare. E torna la domanda: se non sono necessari tanti neuroni per pensare, a cosa può servire allora possederne in gran numero?

Alla ricerca di alcuni principi primi per affrontare questo problema emerge il valore delle differenze, ai margini delle superficie omogenee, come fonti di informazione. I sistemi visivi sembrano essersi evoluti per rivelare i margini, così da segregare figure e sfondo, quello spazio potenzialmente generativo, luogo mobile dell’approssimazione e del riconoscimento reciproco, delle possibilità latenti e emergenti

L’effetto Mach, da Ernst Mach, (1838-1916), ad esempio, è un effetto ottico. È dovuto alla tendenza dell’occhio umano di vedere bande di rinforzo luminose o scure, nere, tra zone a differente luminosità. Le superfici omogenee non convogliano informazione lungo la loro intera estensione, è soltanto nei bordi, là dove le cose cambiano, in colore, chiarezza o tessitura, che dimora con agio l’informazione.

Il valore della differenza marginale per l’apprendimento sembra cruciale: apprendere è riconoscere una differenza.

La passione della narrazione e della narrativa di Vallortigara fa di questo libro un testo appassionante che spesso assume le caratteristiche di un giallo, con relativi livelli di suspence. Così a pagina 74, a partire da un esperimento su un comportamento dello scarafaggio, riconducibile alla formula del “ritarda e confronta”, definita argutamente semplicissima per preparare il terreno, arriva l’ipotesi che quell’artificio presente in sistemi nervosi semplici possa essere l’antecedente evolutivo e l’espediente computazionale “al quale si deve l’innesco della meraviglia più grande, la coscienza”.

Un indizio, non si sa di quale rilevanza, collocato con strategica discrezione in ex-ergo, ma in grado di fornire un indizio di origine, quella roveretana, dello scienziato Vallortigara , peraltro del tutto insospettabile, quale la riflessione di Antonio Rosmini sulla differenza tra sensazione e percezione, apre la strada all’ ipotesi, all’inizio definita minimalista, ma successivamente sostenuta con un rigoroso basso profilo, di quello che la coscienza potrebbe essere, nel tentativo di contribuire alla più complicata questione con la quale le neuroscienze , la psicologia , la filosofia e noi tutti ci confrontiamo oggi : che cosa sia la coscienza , come emerga e come funzioni. A partire da una lettera scritta da un gruppo di scienziati tra i più importanti nel campo degli studi del cervello e indirizzata a Scientific American, Vallortigara riporta il confronto e ne commenta i contenuti facendo riferimento al rapporto tra l’interno e l’intorno di un organismo, e ragionando non solo sugli esseri umani ma su tutti i soggetti del sistema vivente, riflettendo persino su che cosa si provi a essere un verme. Le cellule animali si aprono e si chiudono al mondo esterno attraverso l’afflusso e il deflusso di ioni e mentre lo fanno, l’ipotesi è che stiano facendo qualcosa di più che rispondere agli stimoli esterni. Ciò apre a una domanda: quando accade e perché accade che la distinzione tra sé e non sé diventi necessaria per un organismo. Parrebbe proprio che in quel gioco tra dentro e fuori, tra l’interno e l’intorno, tra l’autonomia e la dipendenza dall’ambiente si configuri l’emergere di un fenomeno particolarmente impegnativo da definire che chiamano coscienza.

E proprio su questo tema che Giorgio Vallortigara spende la punta più avanzata dell’ipotesi contenuta nel libro. In quello che chiama un approccio minimalista al problema della coscienza giungerà, con sottile ironia, a porre in relazione ascidie e professori universitari richiamando una metafora maliziosa. Così come le ascidie si impegnano alla ricerca di una posizione nella quale adagiarsi per sempre, fino a divorare i circa 300 neuroni di cui dispongono, raggruppati in un ganglio nella regione della testa, alla stessa maniera i professori universitari, una volta giunti alla sospirata cattedra, sembrano attaccarsi saldamente alla posizione raggiunta disfacendosi del cervello ormai non più necessario! Nei capitoli undicesimo e dodicesimo del libro Vallortigara sviluppa una riflessione particolarmente importante ed avanzata che cerca di ricondurre l’origine stessa della coscienza al rapporto fra sensazione percezione, individuando nel movimento attivo e in una qualche forma di locomozione mediata da cellule separate da quelle preposte alla ricezione degli stimoli, le condizioni per sviluppare la distinzione tra sé e non sé e per giungere a un organismo che chiamiamo senziente. Quest’ultimo, infatti, è quell’organismo che deve in primo luogo distinguere tra i segnali che genera egli stesso e quelli che sono generati sulle sue membrane da tutto ciò che è altro da lui. In questa combinazione sembrerebbe risiedere l’origine stessa del complesso fenomeno che definiamo coscienza.

Siccome sia i muscoli che i neuroni consentono la locomozione e quindi comportamenti molto più articolati agli animali, sembrerebbe di poter associare la sensazione a queste caratteristiche e a questi processi. Ma non sembra che le cose stiano così in quanto possiamo avere risposte sotto forma di contrazioni corporee come accade in una spugna o in un’ameba, o possiamo avere contrazioni specifiche di un muscolo prodotte dal potenziale d’azione di un neurone motorio e dei processi conseguenti. Se ci chiediamo perciò quale sia la ragione della sensazione, ovvero il perché della sensazione, fino a questo punto non siamo ancora in grado di fornire una risposta.

I fenomeni del comportamento si spiegano come causati non da stimoli esterni, bensì da meccanismi di regolazione e autoregolazione. Gli animali non reagiscono come se fossero degli involucri vuoti modellati dagli stimoli ambientali, ma come sistemi attivi che anticipano e prevedono gli esiti e le conseguenze degli stimoli ambientali.

È l’esperimento della mosca dalla testa storta, che peraltro dà il titolo al libro, quello che serve all’autore per produrre un avanzamento nell’elaborazione della propria ipotesi sulla coscienza. La storia della mosca della testa storta, a partire da un esperimento condotto da alcuni dei più importanti ricercatori della storia dell’etologia, da Konrad Lorenz a Erich von Holst, rende palese il problema che lo sviluppo della locomozione ha comportato per gli animali. È da lì che deriva la necessità di discriminare due varietà della stimolazione che non sono distinguibili nei termini dell’effetto che esercitano sulle membrane, ma che lo sono nei termini della loro origine. La stimolazione sulla membrana diventa un esplicito sentire perché solo a quel punto l’organismo deve distinguere tra ciò che accade a lui e ciò che accade là fuori, deve cioè rappresentarsi attivamente rispetto a un esterno.

E allora Vallortigara scrive: “Il mio argomento è semplicemente che prima dell’evoluzione del circuito dire-afferenza il tocco di un oggetto sulla superficie del corpo produceva solo la reazione corporea, e che soltanto con l’invenzione della copia efferente, resa necessaria dalla locomozione attiva, le sensazioni hanno iniziato a ‘sentirsi’ ”. L’ idea è che la re-afferenza, ovvero quel che viene prodotto dall’azione del soggetto medesimo piuttosto che dall’ex-afferenza, dagli oggetti là fuori, possa fornire la base della distinzione tra sé e non sé.

Se si può percepire senza sentire nulla, è ipotizzabile che quando invece si sente, a rendere possibile il sentire intervenga il fattore tempo, e più precisamente: “ciò che conta è la variazione (ancora una volta la differenza)”. Viene in mente Gregory Bateson che ammoniva: fate una differenza! O William James che è stato forse il primo a segnalare la necessità di un’attività neurale di durata adeguata affinché possa emergere la coscienza dell’input pertinente, come l’autore indica in una nota. Del resto, la sensazione si propone come una reazione corporea, quindi in ultima analisi un’azione motoria essa stessa. “In breve, quello che chiamiamo sentire altro non sarebbe che il segnale sensoriale, trattenuto nel tempo, in attesa di una rivelazione, cioè di un confronto tra il segnale corollario sensoriale/corporeo e la copia efferente di un’azione motoria che potrebbe o meno essere sopraggiunta”. L’informazione dimora nelle differenze e sentire non può che riferirsi a una qualche differenza.

Quello che accade a un organismo che si muova in un ambiente è un confronto tra una copia del comando relativo al movimento e il segnale sensoriale in ingresso, in modo che quest’ultimo ne risulti cancellato. Questo che viene posto in essere “costituisce in effetti una primitiva distinzione tra sé e non sé, il passo cruciale per la comparsa della coscienza” (alias esperienza, nell’accezione del termine usata da Vallortigara). Le strategie di calcolo per estrarre e classificare le informazioni messe a punto nel corso dell’evoluzione sono emerse fin dall’origine della costituzione dei cervelli. Il passaggio evolutivo più notevole, quello della nascita dell’esperienza e, quindi, della coscienza, si manifesta secondo Vallortigara per la prima volta con la necessità per l’organismo di distinguere tra la stimolazione autoprodotta dalla sua stessa attività e quella che gli viene invece procurata dal resto del mondo, intendendo per mondo tutto ciò che sta là fuori. È così che si genera la condizione minima per l’esperienza: un interno che si definisce in maniera attiva rispetto a un esterno. Vallortigara prende posizione formulando un’ipotesi semplice e chiara sul tema della coscienza, stabilendo le distanze anche da coloro che sostengono che la coscienza debba misteriosamente emergere una volta che il sistema nervoso abbia raggiunto un certo grado di complessità.

Se così fosse, sostiene l’autore, dovremmo poter osservare almeno tra gli esseri umani una correlazione tra l’incapacità di condurre attività cognitive complesse e il venire meno della capacità di essere senziente. Ciò è palesemente falso come dimostrano i fenomeni della vista cieca e una serie di altri risultati di ricerca. Per dirla con Shakespeare: troppo rumore per nulla. L’autore sostiene che è possibile per gli esseri umani trarre inferenze logiche sofisticate in assenza di consapevolezza dell’esecuzione delle stesse, sia nella forma che nel contenuto.

In conclusione, Vallortigara sostiene di accogliere con favore la congettura, che riconosce non essere ancora provata, che siano semplici computazioni condotte da poche umili e umide cellule a costituire un substrato possibile e plausibile della coscienza nella sua manifestazione essenziale: la capacità di sentire e di avere esperienza.

*da MNIMA&MORALIA del 17 aprile 2021

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