di GENEROSO PICONE*
Antonio – il protagonista de “La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini” di Antonio Pascale (Einaudi, pagg. 291, euro 20) – è originario di Caserta, ha conseguito la laurea in Agraria a Portici, vive a Roma, scrive romanzi, racconti, articoli e saggi, lavora al Ministro dell’Agricoltura dove riveste il particolare incarico di valutatore dei danni provocati dalle calamità. Di sé dice: “Ispeziono macerie, e vedo sempre frane, devastazioni, buche, stalle distrutte da veto e grandine, filari abbattuti, silos caduti, tutto l’ingegno umano sconfitto dal perpetuo e ancestrale gioco di correnti atmosferiche, qualcosa di gigantesco e irrefrenabile che in alcuni momenti della vita, quando sei debole, per accadimenti e umori vari, ecco, ti abbatte definitivamente”. Insomma, è un esperto in mancate manutenzioni e in traumi anche in conseguenze di ciò accaduti. Il che gli consente di guardare alla realtà da un punto di osservazione capace di cogliere verità celate nella pratica ordinaria dell’esistenza, ribaltandola e così stabilendo un diverso schema interpretativo e una nuova priorità cui consegnarsi. Antonio, cioè, acquisisce la condizione di comprendere che “siamo fortemente, biologicamente, legati alle piante, ma pur parcheggiando le nostre macchine sotto le loro chiome, bruciandone il legno, mangiandone i frutti, pur facendo questo e altro, non le conosciamo: peccato, nelle loro radici c’è la nostra eredità, nei tronchi una nota del tempo, atmosferico e cosmico, che dovremo ascoltare”.
Questo libro, già nell’ambivalenza del titolo “La foglia di fico”, è il referto narrativo di una esperienza di ascolto della natura. Lo compie Antonio – il protagonista o l’autore che sia: vale la pena di intrupparsi nell’autofiction? – attraverso dieci capitoli splendidamente aperti dalle illustrazioni da codice miniato di Stefano Faravelli, che riescono a fare di una raccolta di brani un romanzo: un racconto omogeneo che Pascale governa con una scrittura divagante, frammentata, disgressiva, tessendo una vera e propria ragnatela di microazioni e macroazione al centro della quale ci sono temi come l’amore, le scelte, la libertà, la felicità, il dolore, l’abbandono, la solitudine, la vergogna, l’inadeguatezza, la vita e la morte. Perché nell’ironia e in quel certo disincanto pronto a declinarsi in effetti comici “La foglia di fico” espone la trama di una commedia umana che conviene dichiarare commedia naturale, articolata secondo il principio buddhista dell’impermanenza: non esiste un io assoluto e immutabile, “quindi non c’è nessun io che desidera e soffre: quello che sperimentiamo è solo il desiderio, non il soggetto desiderante”.
Non spaventi la portata delle questioni che Antonio Pascale solleva con perizia e interroga con severità. Né le indicazioni suggerite dopo essere andati a curiosare nell’officina – dettagliata in conclusione – in cui “La foglia di fico” ha preso forma. Certo: si incrociano i profili di Cechov, Kafka, Proust, Joyce e si fanno i conti con le teorie di Peter Wessel Zapffe sul paradosso dell’essere umano che cerca di non essere umano e di Bessel van der Kolk circa i procedimenti di elaborazione delle memorie traumatiche. Ma ragionando di cactus, faccio, ciliegio, tiglio, pino, agrumi, olivo, quercia, leccio, fico e grano, delle qualità botaniche, simboliche e teoretiche che posseggono, impiegando il lessico della precisione tecnica tra betalaine e carotenoidi, narrando di Sara, Cristina, Melania, Katia ed Emanuele, recuperando episodi dell’infanzia e della giovinezza, illuminando le scene familiari con il padre che deve avergli dato la passione per la terra e la madre da cui ha preso il pragmatismo spiccio, confessando occasioni mancate e svolte frenate, Pascale conserva la leggerezza e il disincanto che restano i tratti caratterizzanti e distintivi della sua cifra letteraria.

Qui la pagina dell’autore de “La città distratta”, de “La manutenzione degli affetti”, de “Le attenuanti sentimentali” e le “aggravanti sentimentali” si curva alla razionalità rigorosa e laica di “Scienza e sentimento”, a cui dà voce l’amico Antonino diventato professore e luminare, rabbioso e lacerato dal pressappochismo circostante, figurarsi poi durante i lockdown e la pandemia. Tra cactus crestati, terapie adattive delle piante, profondità analitica del sughero, paradigma sociopolitico dell’olivo e simbologia del fico progressivamente si impone l’interrogativo di inquietudine ontologica: la domanda sul senso della vita, su come viverla, sul suo scorrere in attesa della morte, sulla finitudine congenita al suo caracollare.
Ne viene il viaggio in un’oltretomba quotidiana, “il viaggio che compiamo sempre, quasi ogni giorno”, morire e tornare a vivere, una “storia alla ricerca delle anime in pena, che poi sono le nostre”. E’ in questa consapevolezza che l’epica del fallimento trova sollievo nello sguardo che accoglie piante, campi, natura, mondo.
*da “Il Mattino”
